L’ITALIA HA BISOGNO DI UNO SHOCK FISCALE

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9 dicembre 2017

Osservatorio FISCO

L’ITALIA HA BISOGNO DI UNO SHOCK FISCALE

Nel nostro comandamento «Fisco» abbiamo delineato l’architettura che il nostro Paese dovrebbe adottare per ottenere una vera razionalizzazione dell’intero sistema impositivo. Qui di seguito si tenterà di dare corpo a quella proposta ipotizzando una serie di misure tendenti sia a ridurre il carico fiscale che la massa enorme delle spese inutili ed improduttive, anche se per i puristi il solo fatto di ridurre le imposte assicurerebbe costanza di gettito.

Andiamo quindi subito al dunque,

Da quindici anni il nostro PIL é cresciuto molto meno della media europea con il picco del -2,3% toccato nel 2012. Essere a -2,3% dalla media la dice lunga sulla debolezza della nostra economia perché se confrontiamo questo risultato con quello dei paesi più virtuosi ci accorgiamo che la differenza e ancora più pesante

(Germania + 3,04 – Francia + 2,2) . Un abisso.

Tuttavia c’è un altro dato molto negativo di cui tener conto : fatto 100 il PIL reale delle economie occidentali del 4° trimestre del 2007 solo noi continuiamo a restare al di sotto dei livelli precedenti alla grande crisi (inizio 2008). Francia e Germania avevano recuperato già nel 2011 mentre il Regno Unito nel 2013.

Cosa significa tutto cio’ ? Molto semplice : la nostra economia non cammina alla stessa velocità degli altri paesi. I dati di oggi non sono molto diversi dai precedenti in quanto l’Italia continua a crescere (+1,5%) con un ritmo inferiore alla media europea (+2,2%) e presenta differenze sostanziali rispetto ai paesi che vanno meglio come la

Spagna (+ 3,1%) e l’Irlanda (+4,8%).

Tralasciando alcune cause endemiche pur importanti ma che in questo contesto appaiono complementari e, perciò’, secondarie, soffermiamoci su quelle sostanziali che possiamo riassumere nelle seguenti: incapacità di competere a livello globale e impossibilità di incrementare investimenti e consumi.

Per capovolgere questa situazione di stallo e permettere all’economia di creare benessere con conseguente incremento del PIL occorre dunque che le imprese e le famiglie abbiano più denaro disponibile per investire e consumare. Insomma occorre attivare quel meccanismo virtuoso che consiste in : meno tasse – più investimenti – più consumi – più lavoro – più gettito-più welfare – più benessere.

I piccoli aggiustamenti posti in essere negli ultimi dieci anni non hanno prodotto alcun affetto tangibile se non quello -negativo- di appesantire ancora di più il debito pubblico ( vedasi i famosi ottanta euro elargiti dal 2014 a uso di promozione elettorale e costati 10 miliardi l’anno senza dare alcun beneficio) .

Per avviare il meccanismo di cui sopra si impone con urgenza l’adozione di misure coraggiose: un vero e proprio shock fiscale che risvegli i gangli vitali della nostra economia e del nostro tessuto sociale. Si proprio il nostro tessuto sociale checché ne pensi e dica quella parte di matrice marxista che non intende rinunciare alla progressività delle imposte perché da sempre legata alla teoria pauperistica che avversa la ricchezza e l’economia capitalistica, ritenendo che l’unica progressività possibile sia quella che lo Stato ottiene applicando aliquote marginali crescenti agli scaglioni dei redditi personali (IRPEF) in quanto queste aiuterebbero a fronteggiare le diseguaglianze e la povertà.

Ora, a parte il fatto che qui si vuol far riferimento non solo alla imposta IRPEF ma a all’intera impalcatura del sistema fiscale oggi vigente, appare del tutto evidente che l’armonizzazione di tutte le imposte attraverso una “flat-tax” metterebbe d’accordo le due parti ideologicamente in conflitto tra loro assicurando nel contempo la semplificazione e la riduzione delle imposte da un lato ed il rispetto di quella misura universale di contrasto alla povertà dall’altro.

Per alcuni si tratta di una ipotesi ambiziosa, per altri finanziariamente irrealizzabile, per altri ancora giuridicamente in contrasto con la nostra costituzione.

Secondo Civiltà Italiana é una ipotesi fortemente attuale e concreta purché venga realizzata con equilibrati criteri finanziari e sociali, riassumibile nei seguenti punti :

  1. Aliquota unica al 20% per tutte le imposte attualmente in vigore : IRPEF, IRES, IVA ordinaria, sostitutiva sui redditi derivanti da attività finanziarie e interessi di C/C, cedolari del settore immobiliare;

  2. Abolizione delle due addizionali : Comunale e Regionale;

  3. Abolizione dell’IRAP ;

  4. Abolizione dell’imposta di successione per patrimoni inferiori a 5 milioni;

  5. Abolizione dell’IMU ;

  6. Sostituzione della TASI con una imposta di competenza comunale per i servizi

    urbani erogati dall’ente locale che in modo non troppo fantasioso potremmo chiamare ISU;

  7. Riduzione significativa delle accise su tutti i prodotti petroliferi (almeno il 30% );

  8. Revisione della gratuità di alcuni servizi erogati dallo Stato, principalmente quello della sanità, rendendoli totalmente gratuiti per i meno abbienti ed a pagamento per tutti gli altri con possibilità di rivolgersi anche al mercato libero.

  9. Abolizione di tutti i trasferimenti assistenziali erogati dallo Stato e contestuale introduzione di un sussidio mensile variabile geograficamente da stabilire per ogni single in un range compreso tra 500 e 700 euro.

Qualche commento appare doveroso.

La prima cosa da chiarire é che il progetto appena descritto non é affatto in contrasto con la nostra Costituzione in quanto essa non richiede che le imposte siano stabilite secondo aliquote progressive ma soltanto che l’intero sistema di tassazione rispetti i

criteri di progressività. Nel nostro caso tale principio viene garantito dalla fascia di esenzione denominata “no-tax area” che determina una progressività (per detrazione) anche molto accentuata in proporzione dell’estensione della fascia lasciata esente da imposte

Una seconda questione da affrontare riguarda le rendite finanziarie la cui tassazione oggi scoraggia gli investimenti dei piccoli e medi investitori (gli speculatori fanno parte di un’altra categoria). In tale campo e giunto il momento di dare la possibilità di poter compensare i guadagni con le perdite qualunque sia lo strumento finanziario utilizzato per l’investimento e di renderne illimitato il tempo per l’esecuzione .

I vantaggi ottenibili dalla “flat-tax” possono essere molti. Proviamo ad indicarne qualcuno :

a) semplifica il sistema fiscale perché verrebbero eliminate le miriadi di detrazioni, oneri deducibili, agevolazioni, crediti d’imposta etc, etc, affastellatesi negli anni e fonti di irrazionalità e inefficienza oltre che di perdita di gettito;

b) fa venir meno i disincentivi di produrre “al margine”, gli splitting del reddito e gli arbitraggi fiscali (vedasi il sempre crescente utilizzo dei trust o intestazioni societarie di beni utilizzati per il godimento personale per evitare la progressività delle aliquote);

c) migliora di molto il livello di equità nel trattamento di redditi appartenenti a categorie diverse e pone fine a quella odiosa discriminazione esistente tra redditi da lavoro, tassati con aliquote progressive, e redditi di capitale, tassati, invece, con aliquota proporzionale;

d) spinge a far emergere l’economia sommersa e incentivare la voglia di tornare a fare impresa con conseguente drastica riduzione del fenomeno “evasione”.

A questo punto una domanda sorge spontanea : “ma quale é la giusta “flat-tax” ?

Una aliquota troppo bassa causerebbe una perdita di gettito mentre una aliquota troppo alta porterebbe certamente ad una pressione fiscale elevata, vanificando alcuni vantaggi sopra richiamati, con particolare riferimento sia al recupero del sommerso che all’incentivazione dei consumi.

Tralasciando alcune recenti proposte politiche tendenti più alla propaganda che ad una corretta analisi del problema, si potrebbe ritenere congrua un aliquota unica allineata su valori intorno al 20% in quanto corrisponderebbe sia all’aliquota IVA ordinaria storica sia anche perché si collocherebbe sotto il livello medio della tassazione delle persone fisiche (IRPEF), delle società (IRES), dei redditi di capitale e delle rendite finanziarie. L’entità di questa misura si appoggia e trova conforto nello sviluppo della teoria di Laffer secondo la quale esiste una aliquota oltre la quale un aumento delle imposte disincentiva l’attività economica e quindi riduce il gettito in misura crescente, fino al punto estremo in cui il prelievo fiscale, se raggiungesse il 100%, determinerebbe l’azzeramento delle entrate. In sostanza esiste una aliquota ottimale oltrepassata la quale il gettito tende progressivamente a diminuire a causa di tre fenomeni a scala crescente : sottrazione, elusione, evasione.

Giova comunque ricordare che Arthur Laffer, già professore alla Southern California University, fu l’ideologo economico della rivoluzione fiscale americana che si realizzo’ negli anni ottanta-novanta e che fu poi definita “Reaganomics”.

Naturalmente chi abbia voglia di approfondire puo’ accedere facilmente alla monumentale bibliografia presente sulla materia.

Pur essendo convinto che l’abbassamento delle aliquote d’imposta farà emergere nuovo imponibile e,quindi, determinerà un sensibile aumento delle entrate, sarà opportuno, in ogni caso, prevedere un significativo taglio della spesa che, qualora si dovesse rivelare non necessaria, potrebbe essere impiegata a sua volta per una ulteriore riduzione della “flat-tax”.

Lasciando ad altri il compito di filosofeggiare sulla “spending review”, materia, peraltro, che ben si presta a questo tipo di esercizio, specie quando si parla di welfare, qui di seguito mi limito ad indicare alcune aree su cui intervenire senza avere la pretesa di fare un elenco dettagliato e completo .

1) L’abbiamo chiamata “Questione capitale” proprio perché essa é vitale per il futuro della nostra economia e, quindi, per il nostro Paese. Senza la riduzione del debito pubblico non andremo da nessuna parte perché resteremo sempre sotto la tutela di speculatori e stati concorrenti. Più che una possibilità é un dovere abbatterlo.

Tenendo conto che esso continua a crescere, tanto che oggi veleggia intorno ai 2450 miliardi di euro, e che i tassi torneranno a crescere quando la BCE metterà fine al “quantitative easing”, é verosimile pensare che la spesa per interessi diventerà ancor più pesante e che non basteranno più i 107 miliardi di oggi per far fronte agli impegni presi nei confronti dei risparmiatori di tutto il mondo.

In quel “comandamento” é stato spiegato il metodo, é stata fissata la consistenza del taglio ma non é stato detto alcunché circa l’entità del risparmio che l’operazione comporterebbe . Ebbene, tenendo conto di quanto sopra detto, appare chiaro che lo Stato, quando sarà chiamato a rinnovare le parti di debito arrivate a scadenza, sarà obbligato a farlo a costi crescenti ed il rapporto tra stock e debito si riporterà a quel 5% del periodo pre-crisi (2008). Cio’ vuol dire che é possibile tagliare la spesa per interessi per almeno 20/22 miliardi di euro l’anno, innescando quel circolo virtuoso più volte evocato.

2) Un secondo versante su cui agire riguarda due voci della spesa pubblica del tutto fuori controllo : gli acquisti e i contributi. Gli acquisti sono aumentati in maniera considerevole oltrepassando la misura dei 150 miliardi, di cui circa la metà riguarda la sanità, mentre i contributi si attestano intorno ai 45 miliardi. E’ da notare che la somma di questi due elementi costituisce quasi un quarto della spesa pubblica sui quali, come é intuibile, si concentrano gli appetiti dei partiti onde poter alimentare il potere dei loro apparati e delle loro clientele . I tagli facili e possibili potrebbero agevolmente raggiungere i 35 miliardi l’anno, tenendo conto che almeno 20

di essi sono riferibili ai contributi; tale voce potrebbe rimanere in piedi per i soli contributi destinati agli enti pubblici vitali ed eliminare quelli che vanno alle imprese e cio’ in quanto solo il 3% di queste, dopo aver incassato una parte del bottino, rimane attiva dopo 5 anni .

3) Un ultimo punto sul quale vale la pena soffermarsi é quello nel quale possiamo raggruppare una serie di misure più volte evocate da esperti, politici e gente comune dettate più che altro non tanto per i risparmi attesi quanto dal buon senso e da un concetto dell’etica che i nostri politicanti sembra abbiano del tutto perso di vista. Ricordando che molte proposte di razionalizzazione e riduzione della spesa sono state già indicate nel corpo dei vari comandamenti, mi limito ad indicare le misure seguenti :

a) ridurre il numero dei parlamentari di almeno il 25%;

b) ridurre drasticamente il numero dei consiglieri regionali;

c) eliminare definitivamente le province;

d) accorpare i comuni più piccoli;

e) eliminare ovvero ridurre i tanti enti inutili sia centrali che locali;

f) ridurre drasticamente il personale della Banca d’Italia;

g) far cessare lo scandalo del CNEL.

Se per alcune misure la negligenza della politica é assolutamente responsabile dei ritardi accumulati per le ultime due il senso del ridicolo é stato superato da tempo.

La Banca d’Italia ancora oggi viene considerata un sancta sanctorum fortificato e inaccessibile sebbene non stampi più moneta, non decida la politica monetaria del Paese, non controlli tutti gli istituti bancari sparsi sul territorio nazionale.

Infatti la moneta é volata in Europa, il controllo delle banche sistemiche (Intesa, Unicredit, etc.etc. ) viene svolto dalla BCE, restando a carico della Banca d’Italia il solo controllo delle banche più piccole (Vicenza, Etruria, Carichieti, etc. etc.) con i risultati che noi tutti ormai conosciamo. Ebbene i suoi dipendenti sono rimasti a quota 6885 per un costo annuo poco sotto un miliardo di euro. Faccio notare che la Bank of England, oltre alla Brexit deve gestire anche la sua moneta, i tassi di interesse, nonché un mercato finanziario (City) decisamente più vasto di quello italiano. Lo fa con 3983 dipendenti. Ogni commento appare superfluo.

Infine la paradossale questione del CNEL . Questo ente consultivo é stato istituito nel 1967 per dare consigli e pareri non vincolanti in materia economica e sociale al Governo, alle Camere, alle Regioni, ma in 50 anni di storia ha svolto la sua attività solo in pochi casi e con progetti di legge davvero scarsi. Ebbene, il governo Renzi ne aveva promesso l’abolizione ma anziché farla approvare dai due rami del parlamento, dove, caso più unico che raro, avrebbe trovato d’accordo tutti i partiti, l’ha inserita nella Riforma Costituzionale soggetta ad approvazione finale attraverso il referendum confermativo del 4 dicembre 2016. Sappiamo tutti come é andata a finire : il referendum non é passato e con esso non é passata neppure l’abolizione del CNEL. Insomma questi posti di lavoro sono talmente fissi che i 65 dipendenti, dopo aver rifiutato qualsiasi diversa collocazione, rimangono incollati alle loro sedie e, sebbene l’ente sia sostanzialmente fermo (si fa per dire) dal luglio 2016, vengono regolarmente pagati, premi di produzione compresi (sic!), per non far nulla.

I 7 milioni di questo scandaloso spreco di denaro pubblico rappresentano un granello di sabbia in rapporto ad altri sprechi giganteschi che forse neppure conosciamo ma di fronte al quale non puo’ mancare la mia indignazione e, spero, quella di tutti coloro che si riconoscono nei principi di Civiltà Italiana.

Mario Travaglini

09/12/2017