LA PALESTINA PUÒ VIVERE SENZA UN’ECONOMIA?

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 di Mario Travaglini

        L’idea di uno Stato palestinese separato da quello israeliano guadagna consensi in tutto il mondo. La diplomazia statunitense  incoraggiata dalle aperture mostrate dai paesi arabi del Golfo e dai suoi alleati locali, come l’Egitto e la Giordania, stanno concretamente vagliando l’ipotesi di porre la questione sul tavolo delle negoziazioni internazionali. C’è da chiedersi, però, se un tale progetto, nel caso dovesse trovare concreta soluzione, potrebbe avere successo anche con una economia oggi assolutamente incapace di sostenere e rendere autonomo il Paese. Detto in maniera diversa e più esplicita: la Cisgiordania e la striscia di Gaza riusciranno a raggiungere una reale indipendenza economica ?

Sulla carta la sfida sembra a dir poco difficile da raccogliere, poiché la Palestina  dipende molto da Israele. Un esempio: nel 2022, un anno, per cosi dire, senza guerre in corso, ben il 72% degli scambi commerciali palestinesi era indirizzato verso Israele. Un altro dato importante è poi quello dei 160 mila operai palestinesi che lavorano in Israele, principalmente nel settore edile e in agricoltura nei territori colonizzati o in Cisgiordania, i cui salari ammontano a circa 5 miliardi di euro, pari, più o meno, al 35% del PIL della stessa Cisgiordania. Secondo quanto previsto dal protocollo d’intesa  del 1994  sul regime d’autonomia palestinese, redatto sulla base degli accordi raggiunti ad Oslo l’anno prima, Israele è autorizzata a prelevare i diritti doganali ed  una imposta, corrispondente più o meno alla nostra IVA, su tutti i prodotti importati dai palestinesi. Queste tasse dovrebbero poi essere stornate alle stesse  Autorità palestinesi sotto forma di aiuti per la gestione del territorio.

Proprio dal punto di vista territoriale occorre rilevare una ulteriore anomalia, ovvero che lo stato ebraico controlla tutte le frontiere terrestri, marittime ed aeree della Cisgiordania e della striscia di Gaza ad eccezione di quelle che insistono sulla  parte sud dell’enclave che confina con l’Egitto. E’ evidente che i due possibili partner, l’uno con un PIL di 510 miliardi di euro (Israele) e l’altro con 18 miliardi (Ipotetico Stato della Palestina) non giocano nella stessa categoria. Ciò nonostante i Palestinesi dispongono di qualche risorsa che potrebbero utilizzare in futuro. Una di queste è costituita da un grande giacimento di gas posizionato nel Mediterraneo, al largo della striscia di Gaza,  che secondo le stime tecniche  di una agenzia ONU avrebbe una capacità produttiva di oltre 30 miliardi di metri cubi e di circa 5 miliardi di profitti. Un’altra risorsa potrebbe essere costituita dalle ricchezze di bromo, di magnesio e di potassio situate nel Mar Morto di cui una parte potrebbe essere di proprietà della Cisgiordania. La Banca Mondiale ha stimato che i profitti ottenibili da queste risorse potrebbero raggiungere il miliardo di euro all’anno, oltre ad altri 450 milioni facilmente  ricavabili dallo slancio di solidarietà proveniente dai consumatori di tutti i paesi arabi.  Tra gli elementi positivi c’è da mettere altresì in conto che un aiuto  per la ricostruzione di Gaza e della sua striscia, proveniente da una mobilitazione internazionale e dai Paesi del Golfo, potrebbe permettere di creare in un batter d’occhio migliaia di posti di lavoro nei cantieri sparsi in tutta l’area. Il costo stimato dalle Nazioni Unite si avvicinerebbe ai 19 miliardi di Euro all’anno per un periodo non inferiore a mezzo secolo. Insomma, si tratterebbe di un nuovo piano Marshall che forse potrebbe mettere fine, con il  benessere, ad anni di violenze, disperazione e lutti.

Questo bel sogno, tuttavia, presuppone che la Palestina abbia un Governo non solo democraticamente eletto ma che sia anche  credibile e obiettivo. Questo, che non sembra facilmente realizzabile a breve termine. Infatti, le “Autorità”  palestinesi presiedute da Mahmoud Abbas, che oggi controllano una parte della Cisgiordania e sperano di prendere il potere a Gaza scalzando Hamas, sono spesso accusate di corruzione e nepotismo dalle ONG e da molti oppositori.

Una situazione difficile, oserei dire magmatica, che spiega  l’insistenza degli Stati Uniti affinché si arrivi a comporre un Governo provvisorio composto da personalità indipendenti, da esperti e da tecnici. Un cambiamento che potrebbe dare i suoi frutti a patto che anche Israele partecipi al gioco.  Ovvero che riveda le restrizioni attualmente in vigore come quelle relative alle procedure burocratiche ed alla circolazione di merci e persone  che, peraltro, sono costate  alla economia palestinese oltre 20 miliardi di euro  negli ultimi vent’anni.

Se il peso di queste restrizioni non sarà significativamente alleggerito e se Israele dovesse continuare a perseguire una politica di colonizzazione in Cisgiordania sarà perfettamente inutile  continuare a coltivare speranze  di crescita, di benessere e, quindi, di pace in quei territori. L’economia resterà impotente. Purtroppo.

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